Affrontare la Vergogna in Terapia

La vergogna rientra tra le emozioni di base, è un’esperienza molto spiacevole che coinvolge l'individuo nella sua interezza. La vergogna è un’emozione fortissima, talmente forte che  è capace di provocare nella persona che la prova un cambiamento somatico. Le guance diventano rosse, il cuore batte forte ed il corpo resta bloccato. Nel momento in cui ci si vergogna le emozioni di paura, rabbia e tristezza si alternano scatenando una forte crisi interiore. E’ come se la vergogna dipendesse intrinsecamente dalle altre emozioni negative di base.  Anche se vorremmo fuggire non ci riusciamo.

Possiamo dire che la vergogna si presenta ogni volta che ci sentiamo osservati e giudicati dall'esterno e in quell’occasione ogni movimento, ogni respiro diventa controllato, giudicato (internamente a ritmo frenetico), cercando quanto più possibile di non fare ulteriori danni.

Ma a cosa serve la vergogna? Perché continua ad arrivare all'improvviso?  

La vergogna è un’emozione sociale, la sua dimensione è vissuta con l'altro a differenza del senso di colpa che rimane molto più una sensazione interna di cui l'altro non è reso consapevole. La vergogna, quindi, è una emozione che ci può servire a dare agli altri la possibilità di vederci nelle nostre fragilità. Se l'altro vede la nostra vergogna potrebbe aiutarci a non sentirci più così. Ci vergogniamo quando non ci sentiamo all'altezza di chiedere,  discutere, affrontare l'altro, perché crediamo che sicuramente falliremo.

Essenzialmente la vergogna nasce dalla perdita pubblica della propria immagine personale. E’ la classica situazione in cui si dice “che figuraccia che ho fatto”.

L’immagine che abbiamo di noi stessi è l'insieme delle conoscenze e delle valutazioni positive e negative che noi crediamo gli altri abbiano di noi.  L'immagine personale è molto importante poiché è alla base della nostra identità individuale e del nostro profilo di personalità, inoltre contribuisce in modo efficace a stabilire la nostra posizione sociale entro la rete dei rapporti interpersonali che intratteniamo con gli altri e con la società in generale. 

Alcuni studiosi hanno affermato che la vergogna è un problema di desiderabilità sociale poiché per ognuno di noi è naturale voler essere desiderabili da parte degli altri, voler essere stimati e apprezzati, sapere di occupare una posizione rilevante e significativa nella loro vita. Ovviamente nessuno vuole essere oggetto di derisione e vilipendio, è in gioco la presentazione di sè agli altri. Si tratta di un'operazione strategica poiché uno dei nostri scopi fondamentali è quello di far aumentare la frequenza ed il livello delle percezioni e delle valutazioni positive degli altri nei nostri confronti.  In questo modo noi acquisiamo un potere sociale sempre più rilevante nell’influenzare e nell’orientare i comportamenti e le decisioni altrui.

Nella vergogna abbiamo una caduta profonda del livello di autostima: non soltanto diciamo "chissà cosa penseranno di me", ma soprattutto "come mi sono ridotto, non sono capace neanche di fare questo". Questa compromissione della propria reputazione suscitata dalla trasgressione importante di norme di valori e di aspettative altrui che ci fa sentire profondamente inadeguati è fuori posto. Ci sentiamo una nullità.  

Qual è dunque la via d'uscita? Come affrontare la vergogna?  

A questa domanda possiamo, in parte, rispondere evidenziando l'importanza dell'autostima. Essa è fondamentale nella vita di ogni individuo poiché soltanto un buon livello di autostima consente di possedere un’identità valida e robusta, di mantenere un soddisfacente grado di efficacia e di vivere in una condizione di benessere psicologico.  Di contro invece un basso livello di autostima riflette una condizione permanente di inferiorità rispetto agli altri. Questa si manifesta con sentimenti di insicurezza e di ansia mostrando un continuo bisogno di approvazione e di conferma da parte degli altri. Ma anche chi ha un livello eccessivamente elevato di autostima può avere dei problemi poiché non riesce a tollerare le critiche degli altri, anche quando sono giuste, e può adottare comportamenti irrealistici o inappropriati, orientati alla prepotenza e alla prevaricazione.

L'autostima, in questo caso, può essere  vista come l'incontro fra la proposta soggettiva di ognuno di auto-percezione e quella di come ci sentiamo giudicati dagli altri.  Per definizione la vergogna compare tanto più spesso quanto più è autoritario e dogmatico il gruppo di appartenenza e quanto più si fa ricorso alla disapprovazione in diretta.

Il lavoro in psicoterapia sulla vergogna

In Psicoterapia quando si arriva a trattare la vergogna bisogna essere molto attenti e delicati perché si va incontro ad una delle più grandi fragilità della persona. E’ scontato dire che tutti abbiamo difficoltà a confidare qualcosa di cui ci vergogniamo e quindi, questo tema deve essere affrontato quando la fiducia interpersonale tra terapeuta e paziente è già ben strutturata, salda. Nonostante ciò quando si arriva a lavorare sulla vergogna possono emergere molte resistenze e difficoltà. Quando questo accade, bisogna rispettare i tempi della persona senza forzala ad affrontare qualcosa di potenzialmente minaccioso per la propria immagine. Un esercizio molto utile, in Psicoterapia della Gestalt, quando affrontiamo la vergogna può essere quello della “sedia vuota” ma anche il semplice immedesimarsi nei panni dell’altro in una situazione che ci fa sentire vergogna. E’ una tecnica quasi teatrale in cui ci si immedesima in una situazione in cui in passato è emersa la vergogna. In questo esercizio si cerca di percepire, sentire cosa l’altro pensa di noi e come noi possiamo rispondere o spiegare ciò che sentiamo. L’aspetto importante in questo esercizio è riuscire a dare al paziente una piccola sicurezza in più rispetto alla propria modalità di interazione, andando a migliorare la percezione della propria immagine in una determinata situazione. Il lavoro in terapia va inoltre incentrato sul miglioramento dell’autostima andando ad esaltare tutte le caratteristiche personali, valori, passioni, desideri, facendo sentire la persona vista ma non giudicata, accolta nella sua difficoltà e non derisa, aiutata e non esclusa.

Il Ciclo di Contatto ed il Ciclo di Relazione in Psicoterapia della Gestalt

La Psicoterapia della Gestalt è un modello di psicoterapia post-analitico che integra aspetti derivati da diversi approcci terapeutici mirando ad una visione olistica dell’essere umano. Alla base di questo approccio c'è l'osservazione fenomenologica (nel qui ed ora, così come accade) del comportamento umano mentre interagisce con l'ambiente circostante (persone, lavoro, relazioni, interessi ecc.). La teoria della Gestalt ha definito alcune modalità attraverso cui le persone entrano in contatto con i propri bisogni ed propri obiettivi e provano a soddisfarli. Tutto avviene al confine di contatto definito come il limite di demarcazione tra cosa è interno (Io) e cosa è esterno (altro da me). Attraverso il Ciclo di contatto si identificano le modalità con cui la persona fa esperienza al confine di contatto. Con le fasi del Ciclo (sensazione, consapevolezza, mobilizzazione delle energie, azione, contatto, soddisazione del bisogno, nuova fase di ritiro) l’individuo entra in contatto con l’ambiente e soddisfa il suo bisogno in modo consapevole.



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Con il ciclo di contatto proposto da Zinker (1977) si ha una prima definizione di quella che diventerà una gliglia di lettura dei meccanismi di funzionamento del comportamento umano per la Psicoterapia della Gestalt. Il ciclo di Contatto (rappresentato sopra) da una prima definizione  delle fasi che l’essere umano attraversa nel suo processo di soddisfazione di un bisogno o autorealizzazione. Siamo, dunque, di fronte al tentativo di osservare il singolo atteggiamento o comportamento in una determinata situazione per divenirne consapevoli in ogni sua fase. Non è il tentativo di descrivere il funzionamento dell'individuo tout court, bensì la possibilità di divenire consapevoli del singolo processo psicologico che si manifesta durante una determinata esperienza. Zinker persentava tale modello con un esempio sulla fame: "sento una sensazione nello stomaco, mi accorgo che ho fame ho fame, ne divento consapevole, mi attivo per trovare qualcosa da mangiare, mangio (azione/contatto), sono sazio (soddisfazione) e mi dedico ad altro".

A partire da questa prima griglia di lavoro, negli anni successivi, si è lavorato per rendere il modello più completo ed originale. Erving e Miriam Polster prima e successivamente Maria Menditto e Filippo Rametta si sono diretti verso un approccio più propriamente relazionale, evidenziando quanto le relazioni siano fondamentali nel processo di definizione della personalità e del comportamento diell'individuo.Il modello più conosciuto presentato dalla Psicoterapia della Gestalt Psicosociale  è il Ciclo di Relazione.


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In questo modello vengono aggiunte delle fasi fondamentali per leggere il modo in cui ogni persona fa esperienza nella vita. Le modifiche vengono apportate soprattutto sella seconda parte del modello, dove vengono inserite delle nuove fasi al posto dell'unica fase della soddisazione del ciclo di Zinker. Il Ciclo di Relazione privilegia l'elemento della della relazione nei rapporti, evidenzia i modi con i quali le persone entrano in contatto tra di loro, prevede delle fasi (tensione attivatrice, consapevolezza, attivazione delle risorse) che ci guidano verso una relazione piena ed efficace con l'altro o con il gruppo, e delle fasi seguenti (assimilazione, integrazione, identità) che ci aiutano a mettere a fuoco ciò che abbiamo fatto, la relazione, il contesto, e ci conducono gradualmente a interiorizzare l'esperienza. Il lavoro "successivo" all'azione consolida la nostra sicurezza interiore ed il senso di apprtenenza e di connessione con l'altro (Menditto M., 2008).
Questa griglia di lettura espone ciclicamente le fasi in cui ognuno di noi si trova quando vive un'esperienza. In ogni fase di questo ciclo posso emergere delle difficoltà o incapacità a portare a termine il porpio obiettivo pienamente. Questo accade perchè emergono modi di agire, pensare, compormportarsi che bloccano in qualche modo il processo. I terapeuti e ricercatori della Gestalt hanno definito questi meccanismi "Resistenze". Queste possono intervenire in ogni momento del ciclo e fare in modo che non si arrivi più tanto semplicemente a soddisfare il propio bisogno o obiettivo.



Bibliografia


Menditto M., 2008. Comunicazione e relazione. Come gestire i dialoghi e legami nel quotidiano. M. Menditto, Ed. Erickson

Zinker, Joseph, (1977) Creative Process in Gestalt Therapy. New York: Brunner/Mazel Publishers.



La Connessione tra Corpo e Comunicazione

"Io sono il mio corpo" diceva Friedrich Perls, uno dei fondatori della psicoterapia della Gestalt, volendo sollecitare le persone a riappropriarsi di uno strumento comunicativo fondamentale e di immediato contatto sia con se stessi che con l'altro. Quando siamo in una conversazione spesso ci dimentichiamo di quanto la persona di fornte a noi veda il nostro copro, la nostra espressività, la nostra capacità di manifestare o meno l'accordo riguardo ad un argomento.  L'uso sapiente del corpo e una buona capacità di rapporto con esso sono di aiuto in svariate situazioni di vita quotidiana. Per esempio annuire con il capo durante una conversazione può servire per accentuare o confermare un concetto senza dilungarsi in commenti che potrebbero far perdere l'interesse o rendere troppo lunga una comunicazione.
Alcuni gesti che effettuiamo quando parliamo con qualcuno sono emblematici e possono darci delle indicazioni per cogliere l'emozione della persona con cui stiamo conversando, per esempio: grattarsi la testa può indicare una perplessità; non guardare l'altro mentre  parla potrebbe segnalare il disaccordo o la difficoltà ad accogliere quanto detto;  tenere il pugno chiuso o mostrare i denti serrati può essere indice di rabbia in merito alla situazione.
Diventare consapevoli di come il nostro corpo agisce e reagisce durante una conversazione , di come si possono comunicare queste reazioni all'interlocutore nel modo appropriato, connettendo il corpo con la parola e con il tono di voce, illumina di efficacia, congruenza ed armonia la comunicazione. (Menditto, 2008). Da quanto presentato precedentemente si evince quanto sia importante nella gestione della comunicazione prestare attenzione alla comunicazione non verbale.  La comunicazione non verbale è composta da tutti gli elementi che trasmettiamo al di là delle parole e spesso viene identificata con la comunicazione del corpo, ma essa è più ampia, include anche il tono di voce, la modalità della respirazione, le piccole emissioni vocali chea bitualmente usiamo ecc. (Menditto, 2008). Dare attenzione alla propria espressione non verbale amplifica e valorizza la consapevolezza, fa rintracciare elementi che possono apparire di poco significato ma che rivestono una grande importanza nella gestione delle proprie relazioni.
Non soltanto dare attenzione all'espressività del nostro corpo può migliorare la capacità di comunicare, ma può aumentare il livello di consapevolezza di ciò che si sperimenta in quel preciso momento. Ascoltare il proprio corpo, a partire dalle sensazioni primarie che rimanda, rende più pronti ed efficaci nella gestione di conversazioni di ogni tipo (familaire, di lavoro, amicale ecc.). L'obiettivo non è quello di manipolare le interazioni verbali con gli altri, bensì quello di poter essere quanto più precisi nell'esprimere quello che davvero si vuole dire e farlo nel modo giusto (accettabile per l'altro).  Esprimersi con la doppia forza del pensiero e del corpo può aiutare a raggiungere gli obiettivi prefissati in una conversazione che sia di tipo professionale o anche parentale.  Questa capacità può essere allenata attraverso un impegno costante ed una attenzione alle proprie modalità di comunicazione anche attraverso esercizi di consapevolezza corporea e/o con conversazioni simulate.

La terapia della Gestalt ha sviluppato una serie di tecniche e di esercizi per facilitare la crescita e la consapevolezza del propio stile comunicativo. La "cassetta degli attrezzi" a disposizione del terapeuta contiene una serie di tecniche, spesso emotivamente forti, che possono ampilare la visione di sé e migliorare la gestione delle proprie relazioni ed interazioni con gli altri.




bibliografia

Menditto M., 2008. Comunicazione e relazione. Come gestire i dialoghi e legami nel quotidiano. M. Menditto, Ed. Erickson


Il ritmo del cervello ed il ritmo della vita

La Terra è un ambiente ritmico dove la temperatura, le precipitazioni e la luce del giorno variano con le stagioni. La luce ed il buio si alternano ogni giorno, le maree si alzano e si abbassano. Per essere davvero competitivo e per sopravvivere un animale deve essere in grado di adattarsi al ritmo dell'ambiente in cui vive. Il cervello gestisce  una grande varietà di sistemi per il controllo ritmico, di cui il sonno e la veglia sono quelli più evidenti.  Alcuni ritmi controllati dal cervello, tuttavia, hanno periodi più lunghi come il letargo mentre altri hanno periodi più corti come i cicli della respirazione, gli stadi del sonno durante la notte e i ritmi elettrici della corteccia cerebrale. Le funzioni di alcuni ritmi cerebrali sono conosciute mentre altre sono oscure ed alcuni ritmi sono indicativi di patologia (epilessie, cefalee, emicrania ecc.). Il proencefalo ed in particolare la corteccia cerebrale producono un certo numero di ritmi elettrici rapidi che sono facilmente misurabili e che sono altamente correlati con lo stato di sonno/veglia. L'elettroencefalogramma è il metodo classico (ed il più utillizzato poichè non invasivo) per la registrazione dei ritmi del cervello ed è essenziale per lo studio del sonno e della la veglia. 

Dunque, gli orologi che governano i ritmi circadiani sono situati nel cervello ed influenzano profondamente la nostra salute ed il nostro benessere. Una prova dell'esistenza di un orologio biologico interno proviene da un organismo privo di cervello, la pianta della mimosa. La mimosa solleva le sue foglie durante il giorno e le abbassa durante la notte. A molti popoli sembrava ovvio che la pianta reagisse alla luce del sole attraverso qualche sorta di movimento riflesso. Nel 1729 il fisico francese Jean Jaques d'Ortous de Mairan verificò l'ipotesi; egli mise alcune piante di mimosa in una stanza buia e trovò che continuavano a sollevare ed abbasare le foglie. Mairan credeva che la pianta riuscisse in qualche modo a percepire il movimento del sole anche chiusa in una stanza. In seguito il botanico svizzero Augustine de Canolle mostrò che una pianta simile al buio muoveva le foglie su e giù ad un intervallo di 22 ore, anzichè di 24 ore. Questo implicava che la pianta non rispondeva al sole ma che possedeva verosimilmente un orologio biologico interno (Bear et al, 1999). L'orologio biologico è quello che ci permette di svegliarci sommariamente allo stesso orario anche senza l'uso di una sveglia o che ci permette di capire quando è ora di andare a letto la sera. Ovviamente, però, questo orologio soffre dei continui mutamenti di orario che si fanno dutante la settimana e dunque può facimente sfasarsi.


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La mia considerazione sta nel fatto che "profondamente" ogni esperienza nella vita di una persona possiede un ritmo.  A partire dalla sensazione di voler/dover fare qualcosa, all'attivazione personale, all'azione e successiva integrazione di ciò che abbiamo fatto, possiamo osservare un ritmo di sottofondo. Dunque qual'è stato il mio ritmo durante l'azione effettuata? Sono stato veloce o lento? Preciso o Superficiale? In quale fase mi sono sentito più a mio agio? Sono domande che possono aiutarmi a capire il mio modo di agire ed indirizziarmi a migliorare la capacità di pianificazione ed espressione della mia energia psichica e corporea. Di qui si potrebbe allargare la considerazione ad altre constatazioni riguardo il ritmo personale. Ad esempio: Qual'è il ritmo della mia vita? com'è stato il ritmo della mia infanzia? Ed il ritmo della mia adolescenza? Qual è il mio ritmo di oggi?
Per favorire una maggiore consapevolezza e conoscenza di sè è importante capire se il nostro ritmo quotidiano è troppo veloce rispetto alla capacità del nostro corpo di attivarsi e reagire. E' il caso dello stress in cui la persona è sottoposta a ritmi di vita troppo veloci da sostenere e quindi il cervello (e di conseguenza il corpo) va in uno stato di sofferenza. Prestare attenzione al nostro ritmo quotidiano ci può aiutare a capire se stiamo esagerando con gli impegni o con le responsabilità; possiamo fermarci e guardare il nostro ultimo periodo di vita e capire il ritmo del susseguirsi degli eventi; possiamo notare le parti del nostro crpo che più stanno soffrendo a seguito di un ritmo sostenuto; possiamo attivarci per rendere il nostro ritmo più fluido e funzionale alla nostra vita.

Dunque, per vivrere con un buon ritmo è auspicabile allineare il ritmo di vita quanto più possibile al ritmo circadiano cerebrale e corporeo in modo da favorire un benessere psichico e corporeo restando attivi ed efficaci.




Bibliografia


Bear M., Connors B.W.& Paradiso M.A.  1999. "Neuroscienze. Esplorando il Cervello" Masson-Milano.


Lo stress: tra ritmi frenetici e mancanza di consapevolezza

Cos'è lo stress?

Lo stress è una complessa reazione di risposta di tutto l’organismo (psico-fisico-emotivo) come risposta di adattamento a situazioni, avvenimenti ed eventi vissuti come minacciosi o destabilizzanti. Ognuno di noi può avere elementi stressogeni (stressors) diversi ma i modi di reagire a livello psicofisico sono sostanzialemtne gli stessi. Una situazione stressante può produrre una serie di sintomi che rendono le normali attività quotidiane molto difficili da affrontare. Questi si possono raggruppare in tre aree: sintomi comportamentali, sintomi emozionali e sintomi cognitivi.

Sintomi comportamentali

  • Digrignare i denti
  • Irritabilità
  • Uso di sostanze che creano dipendenza
  • iperfagia (mangare troppo) o ipofagia (mangiare toppo poco)
  • Proiezione (critica degli altri)
  • difficoltà di concentrazione
  • isolamento sociale

Sintomi emozionali

  • Tristezza
  • Dolore psichico
  • Percezione di essere pressato
  • Ansia
  • Rabbia
  • Solitudine
  • Tensione (sentirsisi essere sul punto di esplodere)
  • Importenza
  • Agitazione

Sintomi cognitivi

  • Problemi a pensare in maniera chiara
  • Difficoltà a prendere decisioni
  • Dimenticare le cose o distrarsi facilmente
  • Pensiero di scappare via
  • Mancanza di creatività
  • Preoccupazione costante
  • Perdita di memoria
Lo stress per periodi prolungati può portare a sintomi ancora più gravi e conformarsi sottoforma di disturbo. In Psicopatologia vi sono diverse categorie di disturbi in cui si manifesta lo stress e dove l'aver vissuto un evento traumatico riveste un ruolo centrale.
La caratteristica essenziale del disturbi da stress è lo sviluppo di ansia, angoscia, sintomi dissociativi, sintomi fisici e psicosomatici che si manifestano, in fase acuta entro entro 4 settimane dall’evento traumatico (disturbo acuto da stress). Lo stress, inoltre, può essere di tipo post-traumatico e cumulativo.
Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) si manifesta dopo almeno dopo un mese dall’evento critico e causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. E può differenziarsi in:
  • Acuto: qualora la durata dei sintomi è inferiore ai 3 mesi
  • Cronico: se la durata dei sintomi è superiore ai 3 mesi
  • Ritardato: l’esordio dei sintomi avviene almeno 6 mesi dopo l’evento traumatico

Inoltre abbiamo la definizione dello stress cumulativo e di burnout che comprende: stress da eventi frustranti cumulativi (amarezza, delusione, frustrazione etc.) o da traumatizzazione vicaria sostenute per lungo periodo. Si possono rilevare 3 principali dimensioni del burn out:  esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale, idee negative su di sé.


Come agire sullo stress

Il percorso di psicoterapia aiuta le persone a rientrare in contatto con se stesse, a riprendersi quello spazio per respirare bene, per elaborare le difficoltà che la vita presenta ogni giorno.
Il ruolo terapeutico del "riprendersi il proprio spazio" può fungere da elemento riparatore, da collante per le parti frammentate dell'io, per riacquisire fiducia in se stessi e negli altri. Tra gli obiettivi di chi vive una vita fortemente stressante può esserci quello di sentire/ritrovare un "ground" (campo, fondo) stabile e cioè la capacità percepirsi ben saldo, sostenuto, visto, riconosciuto.
Il lavoro con il terapeuta serve a fare in modo che il ground stabile possa far emergere gli elementi stressogeni ed elaborarli in terapia in uno spazio di sostegno e comprensione facilitando il normale processo dell'essere umano di resilienza.